Per poter garantire ciò, è necessario che lo psicoterapeuta coltivi, nel corso della sua pratica professionale, connessioni personali e professionali solide ed arricchenti, soprattutto con i colleghi, al fine di rimanere ben informato, supportato e sostenuto nelle responsabilità che una terapia richiede. Il lavoro terapeutico presuppone inevitabilmente un investimento emotivo importante, non solo da parte del paziente ma anche, e soprattutto, da parte del terapeuta, il quale necessita, a sua volta, di un sostegno che lo aiuti a comprendere a fondo sé stesso e le dinamiche del suo paziente.
Interfacciarsi con colleghi e professionisti del settore, dunque, diventa uno spunto interessante per arricchire il proprio metodo di lavoro e avviare un’apertura prospettica in grado di stimolare nuove possibilità di lettura.
Ciò che molto spesso inibisce la consultazione tra professionisti è il timore di sentirsi giudicati, o contestati, di sentirsi meno capaci di altri, l’imbarazzo e la vergogna.
I rischi di isolamento professionale per i terapeuti sono peggiorati nel periodo post-pandemico. La chiusura relazionale a cui siamo stati sottoposti continua ancora oggi a lasciare i suoi segni, portando una difficoltà tangibile nel riaprirsi al confronto sociale, limitandosi allo svolgimento del proprio lavoro.
Risulta pertanto una sfida riuscire a ripristinare questa interconnessione sociale e professionale e mantenerla nel tempo, affacciandosi a nuove possibilità ed esperienze che arricchiscono il proprio lavoro.
Un altro aspetto da non sottovalutare è il disagio emotivo-psicologico che la pratica clinica può provocare nello psicoterapeuta.
Vi sono una serie di aspetti che il clinico, in quanto persona, sperimenta: reazioni emotive dettate dalle proprie esperienze, valori, ideologie, personalità, che in qualche modo collidono con quelle del paziente, l’insieme di reazioni attivate in seguito al transfert del paziente, risonanze importanti sulla base della propria storia personale, bisogni e difese del terapeuta stesso.
Tutto questo carico va necessariamente accolto e gestito ed è molto difficile che, tale lavoro, possa essere fatto senza un supporto; per tale motivo diventa indispensabile riconoscere ed accettare che anche il terapeuta ha bisogno di aiuto.
A questo punto, la domanda è: a quali strumenti può ricorrere lo psicoterapeuta per svolgere al meglio la sua professione?
Una prima strada è quella della supervisione.
Si tratta di una metodologia che consente di monitorare l’andamento del proprio lavoro grazie al confronto con un professionista più esperto, avviando un dialogo che permetta di mantenere una visione realista e pragmatica della situazione, mantenere solidi i confini professionali ed etici, sviluppare nuove conoscenze e condividere la preoccupazione derivante da una difficoltà con il paziente. Tradizionalmente, la supervisione nasce come strumento di formazione per gli allievi psicoterapeuti e prevede il loro affiancamento a figure più esperte che hanno il compito di sostenerli e aiutarli nell’acquisizione di capacità terapeutiche e clinico-analitiche.
Tuttavia, la supervisione non resta uno strumento didattico, ma diventa per lo psicoterapeuta un efficace e indispensabile strumento di lavoro per la pratica professionale.
Il supervisore, dunque, assume una funzione di responsabilità nei confronti dell’attività ed è portatore del modello proposto.
La funzione del supervisore non si sostanzia esclusivamente nella capacità di sostenere la narrazione ma richiede anche una competenza circa l’analisi delle rappresentazioni dei fenomeni individuabili attraverso la narrazione, fronteggiando dilemmi etici e interrogativi deontologici che potrebbero intaccare la prassi professionale.
Gli obiettivi che si pone una buona pratica di supervisione sono:
- ampliare le proprie conoscenze mediante la stimolazione di riflessioni, l’offerta di nuove idee e suggerimenti che consentano al terapeuta di apprendere nuovi concetti, tecniche, metodi, e stimolare una lettura critica della situazione.
- offrire un modello di riferimento grazie al quale il terapeuta possa apprendere direttamente, anche attraverso l’esperienza pratica, abilità e tecniche specifiche per i singoli casi.
- offrire consulenza sulle casistiche del supervisionato per indirizzare verso soluzioni non ancora esplorate o non consolidate nella pratica terapeutica.
Si avvia anche un momento di autovalutazione durante il quale è possibile indirizzare e sostenere il terapeuta e lo si aiuti nel monitorare il proprio comportamento in rapporto alla relazione terapeutica.
Per concludere, la supervisione presuppone che il supervisore adempia a un ruolo di coordinatore generale e si impegni nell’accompagnare e restituire ai supervisionati maggiore consapevolezza.
L’intervisione, a differenza della supervisione, presuppone che i ruoli degli interlocutori siano simmetrici, e dunque gli interlocutori sono alla pari nel processo di confronto e valutazione delle dinamiche terapeutiche.
Per definirla meglio, l’intervisione costituisce una modalità di sostegno per psicologi e consente a un gruppo di professionisti del settore di scambiarsi informazioni sui casi a cui lavorano, condividere pensieri e valutazioni, fornire nuovi punti di vista in merito alla diagnosi e trattamento dei singoli casi avviando così una comunicazione circolare basata sull’interscambio.
L’obiettivo è quello di guardare insieme alle difficoltà riscontrate nella pratica clinica di ciascuno, sia dal punto di vista tecnico che umano, partendo dalle emozioni suscitate dalla relazione con il paziente.
I vantaggi che il professionista può trarre dalla partecipazione ai gruppi di intervisione sono la possibilità di apprendere direttamente dai colleghi e arricchire il proprio bagaglio di conoscenze per affrontare problematiche presenti e future.
In conclusione, la supervisione così come anche l’intervisione, si configurano come attività dinamica che non mirano a conservare uno status, ma aspirano all’evoluzione in termini di ruolo e della professionalità.
Questi strumenti non sono pertanto da considerarsi attività di soccorso, né tantomeno di mantenimento, quanto attività di sviluppo.
L’idea è l’accrescimento e la diffusione costante delle competenze all’interno del gruppo, tanto da poter trattare nel tempo temi sempre più complessi. Se possiamo auspicare a un cambiamento comportamentale nei momenti critici, lo stesso concetto può essere applicato agli aspetti emotivi, dove non è solo l’agito a essere oggetto di attenzione, ma lo stato d’animo che va a incidere sul benessere e sull’equilibrio.
L’obiettivo della supervisione e dell’intervisione non è quello di ricercare un modo corretto di sentire o vedere il problema, e nemmeno quello di raggiungere un sistema di codifica univoco per leggere la realtà, piuttosto costruire un filtro che consenta la lettura della pluralità di realtà che compongono la soggettività dell’altro al fine di non accontentarsi di una spiegazione parziale delle dinamiche interne di un individuo ma esplorare da diverse angolazioni prospettiche i possibili modi di percepire, sentire ed esplorare un vissuto.
Bibliografia
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- Massimo Grasso, Barbara Cordella, Angelo R. Pennella, METODOLOGIA DELL’INTERVENTO IN PSICOLOGIA CLINICA, Carocci editore, 2004, pages 24-25.
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- Stefano Masci, LA SUPERVISIONE NEL COUNSELING, FrancoAngeli, 2013, pages 104-106.
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SITOGRAFIA:
https://nationalcounsellingsociety.org/blog/posts/the-importance-of-supervision
- https://brickelandassociates.com/using-the-power-of-clinical-consultations-for-therapists/
https://www.performat.it/pubblicazioni-articoli/la-supervisione-nella-pratica-clinica/#:~:text=Tradizionalmente%2C%20s'intende%20per%20supervisione,analitica%20
Elsa Palmieri e Francesca Musci, Psicologhe Tirocinanti di MenteSociale nel 2023.